“È difficile per Dio con gente come noi” si legge, in alfabeto cirillico, sul grande cartello posto sul ciglio della strada che attraversa Vlasenica, uno dei villaggi principali della Bosnia orientale, all’interno della Republika Srpska, l’entità serba all’interno della Bosnia-Erzegovina. Lo ha scritto – e firmato – l’artigiano che abita nella casa accanto. Una sorta di dichiarazione pubblica che sintetizza perfettamente il carattere dei serbi di Bosnia e in generale il clima che ancora oggi si respira in questi territori.
Il 12 luglio, sul calendario della Bosnia-Erzegovina, non è semplicemente la data che viene dopo l’11, giorno in cui i riflettori internazionali sono puntati su Srebrenica, la cittadina della Bosnia orientale tristemente nota per il massacro di circa 8mila bosniaci musulmani e di cui quest’anno si è celebrato il ventennale.
Il 12 luglio, per i serbi, è Petrovdan, la festività del giorno di S. Pietro. In Bosnia-Erzegovina questa data ha assunto anche un altro significato: è il giorno in cui i serbi ricordano le loro vittime della guerra del 1992-1995. Il 12 luglio 1992, forze musulmane bosniache sotto il comando di Naser Orić, hanno bruciato e saccheggiato diversi villaggi serbi nella zona di Srebrenica e Bratunac, uccidendo 69 serbi e facendone prigionieri 22, mai più ritrovati. Probabilmente l’episodio più cruento a danno dei serbi non fu questo, ma quello che avvenne ila notte del 7 gennaio 1993, giorno del Natale ortodosso, nei villaggi di Kravica e Bratunac e quelli che avvennero nei mesi successivi. I serbi però hanno scelto il 12 luglio come data per le commemorazioni delle loro vittime. Nasce spontaneo chiedersi se la scelta non sia stata casuale, ma dettata dalla speranza di lasciare acceso qualche riflettore anche sui propri morti. I morti degli “altri”, gli aggressori.
Se l’intenzione era questa, non ha avuto l’esito sperato. Sono davvero pochi a conoscere e ricordare questa data, sui luoghi dei monumenti ai caduti o nei cimiteri non ci sono le migliaia di persone di Srebrenica, le telecamere sono soprattutto quelle dei mass-media locali, sui giornali internazionali del giorno dopo non c’è traccia della notizia. I serbi infatti lamentano che nessuno voglia ricordare le loro vittime e ammettere che le perdite sono avvenute da entrambe le parti.
Pulizia etnica, genocidio, negazionismo: in Bosnia le parole sono pietre. E il malumore serpeggia ancora a vent’anni di distanza. L’11 e il 12 luglio sono giornate piene di tensione. La si avverte chiaramente la sera dell’11 luglio quando, sulla strada di ritorno da Srebrenica, ci fermiamo in un piccolo market per prendere qualcosa da bere, attirati però soprattutto dal faccione di Putin sui manifesti appesi un po’ ovunque lungo il percorso. La titolare ci serve alla svelta, gli avventori ci guardano duri e vogliono che ce ne andiamo in fretta, anche se siamo stranieri e solitamente in Bosnia i viaggiatori sono sempre ben accolti. Putin dai manifesti lancia uno sguardo freddo verso la strada, chiaro monito per chi passa da quelle parti. I manifesti sono stati sistemati in bella vista alla vigilia delle cerimonie del ventennale, dopo che la Russia ha messo il veto alla definizione di genocidio per Srebrenica, rinsaldando l’amicizia con la Serbia (il cui Parlamento nel 2010 ha approvato dopo quasi 13 ore di discussione una risoluzione in cui condanna il massacro, senza definirlo genocidio, e ha chiesto scusa per le vittime).
E allora andiamo a vedere cosa succede in questi luoghi il 12 luglio.
La messa ortodossa militarizzata.
La direzione è sempre la stessa: Srebrenica. Il primo appuntamento è la messa nella cattedrale ortodossa dedicata alla Santa Vergine. A differenza del giorno precedente, la strada è scorrevole, non c’è traffico, non è prevista nessuna deviazione per lasciare libera la via alle autorità e non ci sono poliziotti sul ciglio della strada. L’unico segnale che qualcosa sta succedendo è un auto della polizia che scorta un breve corteo di autorità fino alla cittadina bosniaca.
La cittadina è silenziosa e semivuota, l’atmosfera è molto diversa rispetto al giorno prima. Le uniche presenze si concentrano sul pendio da cui si affaccia la piccola chiesa ortodossa. La messa è militarizzata: poliziotti presidiano l’ingresso e ogni angolo dell’edificio. Resterà il dubbio se questo accada ogni anno o se sia una precauzione in più, a causa della contestazione del giorno prima al premier serbo Vucic. Fotografi e televisioni locali non hanno il permesso di entrare e attendono le autorità per le interviste sul sagrato, la chiesa è piena senza però essere affollata. A metà cerimonia non fa mancare la sua presenza il leader dei serbi radicali con il suo seguito: indossa pantaloni mimetici militari e una t-shirt con la croce serba, con le quattro S, comunemente associate alle iniziali della frase Samo Sloga Srbina Spasava, che è il motto della Serbia: “Solo l’Unità Salva i Serbi”. C’è la vice-sindaco serbo-bosniaca di Serbrenica, che ci invita a seguire il corteo istituzionale negli altri luoghi delle commemorazioni ufficiali, che si svolgono nei villaggi della zona di, Zalazje, Sase e Biljača e Zagoni, vicino Bratunac, a 20 chilometri da Srebrenica.
I quattro luoghi del ricordo serbo.
Il primo luogo è il cimitero di Bratunac. Le tombe con le croci bianche sono quelle dei militari, quelle con le lapidi nere quelle dei civili. Accanto a ogni tomba sono allestiti banchetti in onore del defunto: cibo, sigarette, tutto quello che il proprio caro amava quando era in vita. La tradizione ortodossa vuole così. La cerimonia è breve, il tempo solo di deporre qualche corona.
Il secondo luogo è una lapide in mezzo al nulla lungo la strada verso Zalazje. Le auto accostano velocemente sul ciglio della strada. Poche parole di fronte alla lapide e la deposizione delle corone di fiori.
Il terzo luogo è un monumento all’interno della miniera di Sase. Candele, fiori, parole di ricordo e preghiere. Anche in questo caso, la cerimonia non dura più di quindici minuti. A pochi chilometri di distanza, percorrendo una strada sterrata, si può raggiungere un monastero ortodosso, uno dei meno conosciuti dell’intero Paese. Costruito a metà del XIV secolo, forse proprio dai lavoratori delle miniere che qui esistono da sempre visti i giacimenti di argento, zinco e piombo, fu abbandonato ai tempi dei turchi per essere poi riportato alla luce a metà del XIX dai minatori sassoni, quando fu costruita una nuova chiesa dedicata al Santo Apostolo Pietro. Durante la guerra del 1992-1995 fu distrutto, ma è stato ricostruito seguendo la pianta delle vecchie fondamenta.
L’ultima tappa del corteo è il memoriale di Zalazje, dove lo stesso sacerdote che ha celebrato la messa a Srebrenica ha già indossato i paramenti sacri e si appresta a svolgere la cerimonia religiosa davanti al monumento delle vittime, assistito da altri religiosi e da fedeli del partito serbo. Conto 84 fotografie sul monumento. Accanto c’è il monumenti ai caduti della Seconda Guerra Mondiale.
Sui prati intorno, alcune antiche tombe ortodosse e in uno spazio più ampio il cimitero “moderno”, dove le famiglie stanno già preparando le tavole per pranzare insieme ai loro defunti, come vuole la tradizione ortodossa. Lo spazio a disposizione è riconoscibile dall’erba dei prati tagliata. Dove comincia il bosco, ci sono i cartelli che avvisano della presenza di mine, se qualcuno potesse dimenticare che la guerra non poi così lontana. Qui in realtà tutti ricordano molto bene. Le parole ai microfoni sono dure e mostrano l’orgoglio dei serbi che si sentono schiacciare da una colpa che ancora non si stempera. Mladen Grujicic, capo dell’associazione Srebrenica di famiglie dei soldati catturati e caduti e civili mancanti, rilascia interviste.
La guerra dei numeri.
Quando si depongono le armi, inizia un’altra guerra: quella dei numeri. Una sorta di classifica che dovrebbe stabilire chi ha più colpe e chi ha sofferto di più. I bosniaci musulmani morti a Srebrenica dovrebbero essere 8.372 e viene considerato il primo genocidio in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, simbolo della violenza etnica in Europa. Ma secondo i serbi molti di loro sono morti in altre circostanze e in altre date e quindi le persone effettivamente uccise in quella settimana sono molte di meno. Viceversa, i serbo-bosniaci lamentano la totale indifferenza verso i propri morti nei comuni di Srebrenica, Zvornik, Milici, Bratunac, Vlasenica e Osmaci e in tutta la zona di Podrinje, che va da Srebrenica al fiume Drina: 950 secondo le stime ufficiali, addirittura 3.500, tra cui la maggior parte civili, donne e bambini, secondo le fonti serbo-bosniache e serbe.
La cerimonia del ricordo.
A Zalazje il sole dell’ora di pranzo scotta, chi può si è riparato sotto le fronde degli alberi o sotto la tettoia di legno, che copre anche una lunga tavola apparecchiata con un buffet. Le autorità a capo chino e con la candela tra le mani giunte ascoltano le preghiere del pope, che sparge incenso sul monumento. I poliziotti rimangono a distanza a controllare la situazione.
L’immagine che a me colpisce di più è quella di un’anziana, seduta di fronte a tre tombe, disposte a qualche metro di distanza dal monumento. Dà le spalle ai poliziotti e alla cerimonia. Sul tavolo accanto a lei, un vassoio di cibi salati e dolci esposti al sole. Il suo sguardo mi ricorda quello di alcune donne bosniaco-musulmane che ho visto il giorno prima: è rivolto al vuoto, di fronte a sé, con il capo chino verso il basso, completamente estranea alla cerimonia e a tutto quello che si sta svolgendo intorno a lei. È senza dubbio un’immagine suggestiva, tanto che i fotografi le puntano il teleobiettivo sul viso.
Come il giorno prima, è complicato mantenere una presenza discreta. Ma lei non sembra infastidita. Anzi, ci invita più volte a sedere e a prendere qualcosa dai vassoi. Racconta che le lapidi sono quelle di suo figlio e di suo marito, le scende qualche lacrima che si asciuga in fretta con il fazzoletto. Poi tace e continua, in silenzio, a guardare quelle tombe.
Alle sue spalle, a qualche metro di distanza, la cerimonia continua. Il prossimo anno, con tutta probabilità, si ripeterà, uguale a se stessa, nei toni e nelle parole. Non ci sono le t-shirt del giorno prima con le scritte “Don’t forget” e “Don’t forgive”, ma la sensazione è che i pensieri siano gli stessi e che la Bosnia-Erzegovina resti irrimediabilmente divisa. E non soltanto dai confini previsti da Dayton.
Comments
1 commentocaterina solang
Ago 5, 2015Brava, brava, brava 🙂
Un abbraccio
RitagliDiViaggio
Ago 5, 2015Ma grazie, troppo gentile Cate! Un abbraccione anche a te!
Around Srebrenica: il viaggio diventa mostra | Ritagli di Viaggio
Feb 1, 2016[…] conflitto e che ancora non avevo avuto modo di vedere. Oltre al fatto di andare a vedere anche le cerimonie in ricordo delle vittime serbe, il 12 luglio, di cui non si hanno mai notizie. Uno sguardo complessivo, insomma, ai luoghi e ai […]
Marco
Lug 12, 2016Questo reportage è molto interessante. La complessità di balcani ci sorprende sempre. Senza enfatizzare i radicalismi è bene conoscere le ragioni di tutti, in regioni in cui, a ben vedere, sono tutti perdenti. Una signora bosniaca che ormai vive stabilmente in Itali mi ha detto con grande tristezza che lei tornerebbe nel suo paese, che la vita in Italia è difficile, ma che al suo paese non saprebbe come mantenere se stessa e la sua famiglia. Mi colpisce vedere i manifesti di Putin in questi luoghi. Mi inquieta vedere che Putin viene evocato in molte circosanze in cui ci siano torbide lotte in corso, o anche solo latenti tensioni geopolitiche. Forse anche al di là delle sue intenzioni ma mi riesce difficile pensare alla figura di Putin come ad un agnellino innocente.
RitagliDiViaggio
Lug 14, 2016Non posso che concordare con te. I manifesti di Putin in quei giorni erano un chiaro riferimento alle sue dichiarazioni in difesa delle ragioni serbe. Sono giornate molto particolari quelle dell’anniversario ed è difficile farsi un’idea completa di una vicenda così complessa. L’ascolto e l’osservazione sono gli unici modi che io conosco per cercare di avvicinarsi almeno un minimo a questa realtà così sfaccettata. Con la consapevolezza che le domande senza risposta rimarranno sempre.