S’intitola Dasatskisi, ovvero Beginning – L’inizio, il sorprendente film d’esordio della regista georgiana Dea Kulumbegashvili vincitore del Trieste Film Festival 2021, per la prima volta completamente online a causa della pandemia. Il film vince all’unanimità il Concorso Lungometraggi dell’edizione 32 del festival e si aggiudica 5mila euro.
La motivazione della giuria, formata da Paolo Bertolin, Adina Pintilie e Ewa Puszczyńska: “Un film di debutto che rappresenta un raro caso di sicurezza autoriale e di pura coerenza stilistica, in grado di creare una realtà filmica fatta di immagini, suoni e interpretazioni (un accenno in particolare alla sorprendente attrice protagonista) che interrogano costantemente le opinioni dello spettatore su un racconto che è stupefacente e al contempo emozionante”.
Classe 1986, la regista vive a Tbilisi, capitale della Georgia, da dove ha mandato un videomessaggio di saluto al pubblico del festival. Considerata la rivelazione dell’anno, il suo film d’esordio è stato selezionato a Cannes e ha vinto il festival di San Sebastian, aggiudicandosi ben quattro premi, tra i quali quello alla bravissima attrice protagonista. Davvero un inizio strepitoso. Però, è inutile nasconderlo, il film “Beginning” non è un film per tutti e anche il pubblico allenato del Trieste Film Festival ha avuto non poche difficoltà ad affrontarlo. Molti hanno lasciato il film a metà, abbandonando la piattaforma MyMovies. E anche per me non è stato semplicissimo arrivare alla fine.
La scelta della regista di usare moltissimo i lunghi silenzi, le inquadrature fisse, gli scarsi dialoghi, alcuni stacchi improvvisi hanno sicuramente spiazzato gran parte del pubblico. Il film sicuramente ha un alto valore artistico e la regista georgiana ha molto da dire.
Nel suo film d’esordio Dea Kulumbegashvili ha coraggiosamente deciso di affrontare temi molto delicati e complessi come quelli della religione, della società patriarcale e del ruolo della donna in Georgia. La sua protagonista è la moglie di un leader della comunità locale dei Testimoni di Geova, che ha abbandonato la sua carriera di attrice per diventare moglie, madre e figurante di una comunità emarginata all’interno del proprio Paese, la cui maggioranza è di fede cristiano-ortodossa. Una bomba molotov lanciata nella sala di preghiera durante una funzione mette in crisi la vita della protagonista. Il ritratto di una donna inespressa, in crisi esistenziale, sfocia in un malcontento interiore, in cui si ritrova a subire anche le angherie di un ufficiale di polizia corrotto. La scena dello stupro nella cornice idilliaca del bosco girata con la tecnica del campo lungo è un’altra di quelle che non si dimenticano. Un film che si è fatto notare a tutti i festival a cui ha partecipato, che ha stupito in modo molto positivo la critica, ma che sicuramente rappresenta una grossa sfida per il pubblico, sia per le sue scelte estetiche, con l’uso estenuante di inquadrature fisse, sia per le scene disturbanti, a volte difficili da sostenere.
TRE MENZIONI SPECIALI LUNGOMETRAGGI
La giuria ha inoltre attribuito tre menzioni speciali a:
- EXILE di Visar Morina (Kosovo/Germania/Belgio) per “l’inquietante esplorazione dell’inconscio di un migrante in cerca di integrazione, messa in scena utilizzando i codici propri degli ansiogeni thriller psicologici”;
- MY MORNING LAUGHTER di Marko Djordjevic (Serbia), “commedia drammatica capace di ispirare tenerezza, girata e recitata in modo impeccabile, arricchita da una sceneggiatura che riflette la quotidianità, ma allo stesso tempo in grado di sovvertire i tropi più classici”
- SO SHE DOESN’T LIVE di Faruk Loncarevic (Bosnia Erzegovina), “un’opera provocatoria in grado di mostrare in maniera implacabile, ma rigorosa, l’angosciosa ordinarietà della violenza di genere, e di intersecare coraggiosamente le questioni di identità e di gender”.
Anche in questo caso, penso che il pubblico del festival sia rimasto piuttosto spiazzato dalle scelte della giuria, soprattutto per non veder inseriti nei premi alcuni dei lungometraggi molto amati dagli spettatori e probabilmente più facilei da apprezzare dal grande pubblico.
Delle tre scelte, Exile è la mia preferita: il film del regista kosovaro mi ha davvero convinta. My Morning Laughter mi è sembrato interessante e originale più per la storia che per la regia, mentre la violenza è la crudeltà di So she doesn’t live è stata per me al limite della sopportabilità. Se decidete di vederlo, siate preparati.
CONCORSI DOCUMENTARI E CORTOMETRAGGI
Concorso Documentari
Vince la ROMANIA con Acasă – My Home
La motivazione: “Cosa viene prima? Il desiderio di una famiglia rom di uscire dalla società, oppure il razzismo che l’ha allontanata? La loro esistenza su un’isola non veniva tollerata dalla società tradizionale, e adesso si ritrovano ad essere discriminati dagli abitanti della città. Il film è un chiaro esempio di come l’esistenza di una comunità, non il suo modo di vivere, venga preso di mira dall’odio ovunque essa si trovi”.
Concorso Cortometraggi
Vince la POLONIA con Beyond is the Day di Damian Kocur “per lo sguardo inedito, e nutrito da un’interessante ricerca formale, con il quale il regista racconta l’incontro con “l’altro”, tra due uomini uniti dal bisogno di condividere le rispettive solitudini e capaci di comunicare con un linguaggio che oltrepassa ogni confine”.
Menzione speciale per il greco Goads di Iris Baglanea con la seguente motivazione: “un film fantasioso, maturo, e girato benissimo. La giuria è rimasta molto colpita dalla capacità notevole della regista di lavorare con i bambini e gli animali”.
ALTRI PREMI
Premi del Pubblico
Miglior Lungometraggio: Father di Srdan Golubovic; Miglior Documentario: Town of Glory di Dmitrij Bogoljubov; Miglior Cortometraggio: Love is just a death away di Bára Anna Stejskalová.
Il Premio CEI (Central European Initiative) al film che meglio interpreta la realtà contemporanea e il dialogo tra le culture: Father di Srdan Golubovic.
Il Premio SkyArte assegnato a uno dei film della sezione Art&Sound: Le Regard de Charles di Marc di Domenico (apprezzatissimo anche dal pubblico del festival), con una menzione speciale a Homecoming di Boris Miljković.
Il Premio Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa al miglior documentario: Once Upon a Youth di Ivan Ramljak.
Il Premio Cineuropa al miglior lungometraggio: Sweat di Magnus von Horn.
Il Premio Corso Salani 2021: Ultimina di Jacopo Quadri.
Questo post però sarebbe incompleto se non vi raccontassi alcuni dei 13 lungometraggi in gara che mi sono piaciuti di più, molti dei quali non hanno ricevuto premi o menzioni. Quest’anno, a differenza forse degli ultimi tre anni, ho trovato un numero elevato di film interessanti e adatti a un pubblico più ampio rispetto a quello dei cinfeili o degli appassionati di cinema dell’Europa centro-orientale.
Un numero maggiore di film potenzialmente adatti anche a persone che, di norma, non partecipano ai festival, ma amano il buon cinema e sono curiose di vedere pellicole che arrivano da Paesi ancora poco conosciuti e che, magari, possono avere qualche probabilità in più di essere distribuiti.
La cosa bellissima dei festival di cinema come il Trieste Film Festival, infatti, è la possibilità di vedere film e documentari che poi non si troveranno più da nessuna parte, proprio a causa della mancata distribuzione.
I MIEI FILM PREFERITI
1) Strah (Fear – Paura) di Ivaylo Hristov – BULGARIA
In molti penseranno: “Ecco l’ennesimo film sull’emigrazione!” Il tema in effetti è quello ma vi assicuro che un film come “Strah” (Fear – Paura) del regista bulgaro Ivaylo Hristov non lo avete mai visto. Ambientato in una cittadina rurale bulgara al confine con la Turchia, giocato sull’ironia che sfocia spesso in sarcasmo e addirittura in farsa, il regista riesce a puntare il suo sguardo originale sugli abitanti e le forze di polizia alle prese con un bizzarro immigrato africano in modo talmente pungente e allo stesso tempo delicato, che sarà impossibile non adorare questo film. Svelta, la straordinaria protagonista, è una vedova che ha perso il lavoro di insegnante. Vive in un villaggio sperduto della campagna bulgara dove tutti conoscono tutti e dove non succede mai niente. Ma dove negli ultimi anni gli abitanti sono stati investiti dal fenomeno dell’immigrazione, perché il confine tra Turchia e Bulgaria è parte del noto percorso della rotta balcanica.
Hristov non ha paura di puntare il dito contro paure e ignoranze di una società a sua volta ai margini, ma l’uso sapiente dell’ironia stempera il messaggio graffiante e corrosivo nei confronti della grettezza umana e rende il film piacevolissimo e divertente, pur con diverse punte amare. Anche il finale gioca sull’assurdo ma forse non poteva essere altrimenti in una pellicola che da pantomima diventa fiaba. Tocco ulteriore: la scelta del bianco e nero, che sembra strizzare all’occhio alla gamma di sfumature di grigio che esistono sempre tra due estremi. C’è un bel po’ di genialità in questo lavoro.
2) Jak najdalej stąd (I Never Cry – Non piango mai) di Piotr Domalewski – POLONIA
Ambientato tra la Polonia e l’Irlanda, Jak najdalej stąd (I Never Cry – Non piango mai) di Piotr Domalewski mette non soltanto a fuoco la vita degli emigrati per lavoro e delle loro famiglie rimaste in patria, ma è soprattutto il ritratto crudo e schietto di Ola, una ragazza di 17 anni costretta ad andare a Dublino per riportare a casa il cadavere di suo padre morto in un incidente nel cantiere in cui lavorava (la madre non sa l’inglese e deve prendersi cura del fratello disabile).
Da ragazza come tante alle prese con la scuola, il ragazzo che le piace e l’esame per la patente (suo padre le ha promesso l’auto), Ola, interpretata dalla bravissima esordiente Zofia Stafiej, si trova di punto in bianco catapultata in un mondo più grande di lei, in cui poco a poco scopre la vera vita (e doppia vita) di suo padre, che per lei è quasi un estraneo.
Mai banale nel dipingere sentimenti e storie, il regista polacco, uno dei talenti emergenti in Polonia (il suo esordio Silent Night è stato pluripremiato a svariati festival ed è in arrivo uno co-regia per una serie su Netflix) prende spunto anche dalla sua storia personale per raccontare il rapporto di semi-sconosciuti di un padre e una figlia e il passaggio all’età adulta di un’adolescente. Commovente e realistico, piacerebbe di sicuro a Ken Loach.
3) Otac (Father – Padre) di Srdan Golubović – SERBIA
È il viaggio di cinque giorni e 300 chilometri a piedi dal suo villaggio nella campagna serba a Belgrado di Nikola, un padre a cui i (corrotti) servizi sociali hanno sottratto i figli perché privo di lavoro fisso, che decide di andare di persona al Ministero a presentare ricorso. Licenziato senza liquidazione, la moglie in ospedale per essersi data fuoco davanti all’ex azienda del marito, Nikola è talmente disperato da lavorare alla giornata senza rendersi conto di essere entrato nel tritacarne della burocrazia che non dà scampo, soprattutto quando è gestita da funzionari corrotti.
Completamente solo, senza avere più nulla da perdere, Nikola si mette in viaggio a piedi, senza soldi, soltanto con uno zaino, dando vita a un inaspettato road movie in cui il protagonista, animato da una motivazione incrollabile. Il viaggio è costellato da fugaci incontri ma soprattutto da una natura desolata, perché non si tratta di avventura ma di miseria e rabbia verso l’ingiustizia (anche qui c’è un ricordo di Ken Loach, anche se il regista dichiara riferimento dichiarato del regista è Herzog di Sentieri di ghiaccio).
Denuncia sociale e viaggio emozionale, presentato in anteprima alla Berlinale 2020. Da una storia vera, Otac è la quarta pellicola del regista serbo Srdan Golubović che negli anni ha presentato al festival tutti i suoi lavori. Il finale è assolutamente perfetto (non ve lo racconto per non rovinarvi il film, magari da qualche parte riuscite a vederlo).
4) Galaktika e Andromedës (Andromeda Galaxy – La Galassia di Andromeda) di More Raça – KOSOVO
Non è la prima volta che grazie al Trieste Film Festival ho la fortuna di apprezzare la delicatezza nell’affrontare storie di solitudine e di disperazione raccontate da giovani registe kosovara. Bravissima More Raça, regista di Andromeda Galaxy, classe 1992, attivista per i diritti umani. Nel suo primo lungometraggio racconta la storia di un uomo di mezza età, vedovo, senza lavoro, con una figlia da accudire. Dunque una comune storia di vita quotidiana, ambientata a Pristina, con cui la regista riesce, grazie anche alla bravura del protagonista Sunaj Raça (padre della regista e anche produttore del film) e a soluzioni originali (gran parte del film è ambientato in auto e in camper), ad arrivare al cuore in un mix agrodolce ben riuscito, nonostante i personaggi comprimari avrebbero potuto essere approfonditi di più.
“Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle”. Le stelle sono quelle di Andromeda, la galassia più vicina alla nostra, uno dei rari fenomeni cosmici osservabili anche ad occhio nudo e che il protagonista viene a conoscenza grazie a una prostituta di cui diventerà prima amico e poi autista. E sarà anche il gioco che farà con la figlia, rinchiusa in un orfanotrofio perché lui non può prendersi cura. Una vita ai margini, senza via di uscita, a causa dell’età non riesce a trovare un’occupazione, costretto a vivere in un camper in una Pristina priva di prospettive, si trova a un bivio, per provare a dare un futuro a se stesso e a sua figlia. Il dramma genitoriale si amplifica coinvolgendo quello di un intero Paese, ostaggio ancora della corruzione, del traffico di organi e di una classe politica corrotta. Il finale è aperto, ma la regista in realtà è riuscita già a dire tutto.
5) Exile (Exil – Esilio) di Visar Morina – KOSOVO
Il regista kosovaro Visar Morina racconta la storia di Xhafer, un ingegnere farmaceutico di 45 anni originario del Kosovo e che vive in Germania. Dopo aver trovato un ratto appeso al cancello di casa pensa di essere vittima di odio razziale. E se i colleghi di lavoro lo discriminassero per il fatto di essere straniero mettendolo in difficoltà sul lavoro? E se sua moglie lo tradisse? E se invece l’unico ipocrita fosse lui?
Xhafer è all’apparenza un brillante professionista, con una moglie tedesca, tre figli e una bella casa in un quartiere residenziale. Il suo percorso di integrazione in Germania sembrerebbe concluso nel migliore dei modi. L’apparenza però potrebbe ingannare e Xhafer è in realtà un uomo totalmente concentrato su sé stesso da non rendersi nemmeno conto del dolore e della sofferenza che gli passano accanto, né tantomeno di quella che è lui stesso a provocare. Il suo sguardo superficiale sulla vita e sui problemi dei suoi colleghi, di sua moglie e della sua amante (ad un certo punto scopriremo che l’infedele è proprio lui!) non arretra di un millimetro, dipingendo in modo tanto realistico quanto spietato una generazione di uomini in piena crisi tra fobie, autocommiserazione e autodistruzione, imprigionati nel proprio punto di vista, incapaci di autocritica.
Azzeccata la colonna sonora che simula il tarlo nel cervello del protagonista, in una sorta di thriller psicologico in cui abilmente il regista riesce a infondere i dubbi allo spettatore, in una storia che oscilla continuamente tra realtà e immaginazione. Il ritmo tanto calmo quanto inesorabile rende l’ossessione e la paranoia molto convincenti. Non a caso vincitore del Sarajevo Film Festival 2020 e menzionato dalla giuria qui al Trieste Film Festival. Non vi svelo la soluzione, ovvero chi è a lasciare i topi morti al protagonista.
6) Francuz (A French Men – Il francese) di Andrej Smirnov – RUSSIA
Pierre Durand è uno studente francese che nel 1957 ha la possibilità, grazie ad un tirocinio dell’università, di partire per Mosca. Nella capitale russa il giovane conosce la ballerina Kira e il fotografo Valera, che lo portano a scoprire una città che, nonostante il regime sovietico, subisce le influenze culturali dell’Occidente. Il protagonista del film di ha voluto fare questo viaggio anche per cercare le proprie radici. Qui troverà il suo vero padre e anche l’amore, anche se il rapporto costruito più felicemente è quello di amicizia tra i tre in giro per Mosca, che a molti ha ricordato il Truffaut di Jules et Jim.
Il film segna il ritorno in grande spolvero del quasi 80enne regista Andrej Smirnov, uno dei big del cinema sovietico degli anni ‘70 e che per 30 anni ha dovuto rimanere fermo a causa della censura sovietica. Smirnov tratteggia un magnifico dipinto in bianco e nero, elegante e poetico, della Mosca tra gli anni Cinquanta e Sessanta, tra caffè fumosi e jazz, in cui l’atmosfera è di una libertà relativa, purché non si metta in discussione il marxismo. È la Mosca vissuta dallo stesso regista, che però decide di raccontare attraverso gli occhi di uno straniero.
L’uso del bianco e nero è un omaggio alla Nouvelle Vague francese, mentre il film è dedicato alla memoria di Aleksandr Ginzburg, uno dei primi dissidenti della dittatura sovietica.
7) Pari di Siamak Etemadi – GRECIA
Un viaggio dall’Iran ad Atene per trovare il figlio partito per motivi di studio si trasforma nella ricerca di sé stessa una donna iraniana in un Paese straniero in cui non conosce nessuno, aiutata soltanto da qualche parola d’inglese e dal suo coraggio. Il viaggio dei due coniugi iraniani è stato programmato da mesi, ma all’aeroporto ad aspettarli il figlio non c’è e non si trova da nessuna parte. Poco alla volta la coppia scopre la vera storia del figlio, partito da qualche anno dall’Iran ma che in realtà non ha mai dato nessun esame all’università e si è unito agli anarchici di Exarchia.
Pari, la mamma, non accetta di tornare a casa senza il figlio. Il marito prova a seguirla per qualche tempo ma, sopraffatto da un ambiente troppo distante dal suo modo di vivere e da un ritmo frenetico e incalzante di esperienze, muore all’improvviso. Pari si ritrova sola, ma non si dà per vinta, nonostante l’Ambasciata la inviti a tornare a casa. Si libera dalle convenzioni sociali, si avvicina a mondi che non immaginava nemmeno esistessero. Ci mette tutta la forza e la passione che forse non immaginava di avere e che, di certo, non ha avuto il coraggio di esercitare fino a quel momento, a differenza probabilmente del figlio che si è allontanato dalla famiglia e dal paese natale per non farci più ritorno.
Partito benissimo, forse il racconto si perde un po’ verso la fine. Resta però l’intensa e commovente opera prima di Siamak Etemadi, regista di origine iraniana trasferitosi ad Atene. Un’altra similitudine tra la vita e il lavoro del regista, al suo primo lungometraggio, è il titolo, “Pari”: il nome della protagonista è anche il nome della madre del regista, a cui il film è dedicato.
8) Berliner (The Campagne – La campagna) di Marian Crișan – ROMANIA
Cosa succede se l’auto di un candidato al Parlamento europeo si ferma in mezzo alla campagna di un paesino? Facile. La momentanea difficoltà può diventare un’operazione di marketing per la campagna elettorale in corso. Tanto più se il candidato deve vincere per ottenere l’immunità che lo salverà da un processo di corruzione. E se il suo improvvisato ospite ha bisogno di un nuovo trattore ultimo modello. La campagna rurale della Romania diventa così il palcoscenico perfetto della campagna elettorale del parlamentare. Dai ritratti con i cesti di frutta e sul trattore ai finti giri in bicicletta, sempre a portata di macchina fotografica.
Marian Crișan ambienta il suo film “Berliner” (“La campagna”) a Solonta, sua città natale nella Romania occidentale, e dipinge con sottile ironia i dietro le quinte della politica e della comunicazione elettorale. Il «Berliner» del titolo rimanda alla celebre frase «Ich bin ein Berliner» («Sono un Berlinese») pronunciata a Berlino Ovest nel 1963 da John F. Kennedy. La citazione che ha fatto la storia qui assume un effetto comico, ricollocata nel contesto di Salonta, cittadina transilvana di diciottomila abitanti al confine con l’Ungheria.
Divertente e amaro, una storia seria affidata al tono lieve della commedia che traccia un impietoso ritratto della società rumena e fa riflettere sul rapporto tra propaganda e realtà.
9) Sweat (Sudore) di Magnus Von Horn – POLONIA
Vita pubblica e privata di un’istruttrice di fitness influencer su Instagram sull’orlo di una crisi di nervi: si potrebbe riassumere così il bel film di Magnus Von Horn, selezionato per partecipare a Cannes. Sylwia è un’influencer polacca in rapida ascesa grazie non soltanto alla sua bellezza ma anche alla bravura di coinvolgere le persone, in particolare le donne, in allenamenti per tenersi in forma. Le sue follower sono soprattutto donne, che la fermano nei centri commerciali e, pur senza conoscerla, le raccontano fatti anche intimi della propria vita. Sylwia ama il suo lavoro e si destreggia il meglio possibile tra allenamenti e registrazioni, con un occhio sempre attento al cellulare e ai messaggi dei suoi follower.
Tra selfie, popolarità, regali e apparizioni tv, il personaggio viene ben descritto, privo di stereotipi. Sylwia è una motivatrice, diventa un modello e una sorta di mito per le sue follower. Ma Sylwia ha anche una vita anche fuori dai social media, fatta di alti e bassi, tra una famiglia con cui ha poco da spartire e che non prende sul serio il suo lavoro, un cagnolino e qualche collega.
Durante un momento di tristezza, la protagonista racconta la sua solitudine ai follower: il video diventa virale e Sylwia scopre ben presto di avere uno stalker che la pedina sotto casa e la sogna da lontano. Sylwia ne è spaventata, cerca comprensione nella madre e nel collega di lavoro con cui sembra avere un feeling, ma trova soltanto il vuoto. Il racconto purtroppo ad un certo punto perde il ritmo, anche se poi si riprende con un grande e inaspettato finale, in cui la protagonista sembra riconoscere dentro sé stessa l’umanità che inutilmente sperava di trovare negli altri. Di certo, il film ha il merito di raccontare in modo verosimile i pregi e i difetti di chi per lavoro vive anche attraverso i social e le difficoltà nel gestire la propria vita privata.
Ci sarebbe ancora molto da dire sulle tantissime interessanti pellicole, tra lungometraggi, corti e documentari che sono passate attraverso la straordinaria edizione di quest’anno che, nonostante la dura prova della dimensione totalmente online, ha superato ogni aspettativa.
Di positivo c’è stata sicuramente la possibilità di vedere più pellicole e di seguire il festival anche da parte degli appassionati che non sarebbero comunque potuti venire a Trieste, come prova il fatto che soltanto il 22% degli spettatori di questa edizione era collegato dal Friuli Venezia Giulia. Il festival quest’anno ha aumentato il suo pubblico coon 25000 accrediti e più di un milione di minuti di visualizzazioni dei film presentati.
Dieci giorni di proiezioni con 65 titoli provenienti da 40 Paesi e 25 eventi collaterali in presa diretta, l’appuntamento per il 2022, in presenza come ci auguriamo tutti, è già molto atteso.