L’india ha da sempre esercitato un grande fascino nell’immaginario comune. La povertà, la spiritualità, i colori. Ma oltre gli stereotipi e l’immaginario, l’India nel 2023 è il Paese più popoloso al mondo con un miliardo e quasi cinquecento milioni di abitanti, oltre che il più giovane, con circa il 40% di under 25, superando di alcune decine di milioni la Repubblica Popolare Cinese.
Ma non solo. Secondo gli analisti finanziari internazionali, sembra che l’India entro il 2025 sarà al quinto posto nella classifica delle economie mondiali grazie ad un incremento costante del proprio Pil del 7% che la porterà ad essere entro il 2023 la terza potenza alle spalle di Cina e Stati Uniti.
Questi sono i dati forniti nell’introduzione della mostra fotografica “India Oggi, 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri”, a cura di Filippo Muggia, organizzata e prodotta da Erpac e visitabile fino al 18 febbraio al Magazzino delle Idee di Trieste.
L’esposizione è la prima grande collettiva realizzata in Italia con 350 fotografie, 4 video installazioni e 15 video interviste agli artisti che raccontano gli ultimi 70 anni del subcontinente indiano, dall’Indipendenza ottenuta dall’impero britannico nel 1947 ai giorni nostri.
Lasciando da parte retorica o esotismo che hanno caratterizzato spesso le narrazioni occidentali, l’India raccontata dai propri fotografi è un Paese che deve fare i conti con un ingombrante passato postcoloniale e con un presente in cui si parlano 23 lingue e oltre duemila dialetti, in cui le caste ancora regolano la vita quotidiana, sociale e politica, generando conflitti ancora lontani dall’essere risolti. Il legame con l’Inghilterra, il boom tecnologico, le nuove generazioni, la miseria e la povertà sono soltanto alcuni temi per raccontare un Paese che sembra essere la centrifuga del mondo. Ricordo il mio primo impatto con l’India: il primo impulso era quello di fotografare tutto, senza nemmeno selezionare l’inquadratura, perché ogni cosa che si stagliava davanti ai miei occhi rappresentava una storia, ogni immagine era un’icona. E quindi come si fa a raccontare davvero l’India?
La mostra affronta le questioni di genere, di identità e di religione da sempre presenti e che oggi si sovrappongono anche ai problemi derivati dall’evoluzione economica e industriale che comporta lo spopolamento delle campagne ed enormi danni all’ambiente.
Fra tradizione e cambiamento, i fotografi indiani oggi indagano l’attualità, sono una generazione colta e capace di affermarsi in ambito internazionale, attenta alle dinamiche interne e capace di confrontarsi con l’esterno. I 17 fotografi in mostra sono Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose e Uzma Mohsin.
Seguendo un ordine cronologico che avanza per decenni, dalla metà del ventesimo secolo fino al nuovo millennio, la mostra lascia poi ampio spazio ai lavori degli autori contemporanei. L’esposizione ben evidenzia come si sia trasformata sia la società sia la fotografia a livello di tecnica, composizione, scelta dei soggetti e dei messaggi da lanciare. Originale e sorprendente, un invito a conoscere una terra e un popolo che non smette di affascinare.
Impossibile evitare di iniziare il racconto fotografico dell’India partendo da Gandhi, icona e simbolo intramontabile. In mostra ci sono le foto del nipote, Kanu Gandhi, che ci mostrano il Mahatma nei momenti pubblici e privati negli anni più intensi di vita in cui praticava la disobbedienza civile e viaggiava in treno da un luogo all’altro.
Pablo Bartholomew racconta le città di Delhi, Bombay e Calcutta soffermandosi soprattutto sulle nuove generazioni e la loro voglia di rivalsa. C’è l’India dei bambini che sopravvivono per strada come spesso ce la immaginiamo e a cui Vicky Roy riesce a dare una voce originale e autentica.
Raghu Rai, considerato oggi unanimemente uno dei maestri della fotografia indiana, riunisce nelle sue fotografie i quattro decenni che intercorrono tra gli anni Sessanta e il Duemila.
Di grande impatto le foto di Amit Madheshiya che immortala i visi stupiti di uomini e donne che assistono alla proiezione dei film sotto tendoni itineranti. La fotografa Sheba Chhachhi, attivista e cronista del movimento femminista indiano, immortala le donne tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.
Difficili da dimenticare gli scatti colorati e rivoluzionari di Anita Khemka, che da vent’anni segue e racconta la vita di Laxmi, uno hijra, ovvero un transessuale. Da secoli gli hijra fanno parte di una sottocultura, vivono ai margini, sopravvivono cantando e ballando, mendicando o prostituendosi. La storia di Laxmi invece è diversa: da quando ha aderito al monachesimo è riuscita ad ottenere una posizione in ambito politico, tanto da rappresentare la comunità Lgtb in India.
L’altra faccia dell’India contemporanea, quella che vive nei villaggi e assiste, impotente, alla grande trasformazione in atto nel subcontinente è al centro dei lavori, tra gli altri, di Ishan Tanka, che mostra i sommersi, ovvero gli abitanti di quei villaggi che lottano per il loro diritto alla sopravvivenza nell’India centrale o di Uzma Mohsin, che, con il suo coraggioso lavoro dall’emblematico titolo Songkeepers, analizza i meccanismi che regolano la protesta civile, e soprattutto le conseguenze che questa azione provoca oggi in India.
Questa è la terza e ultima mostra del 2023 in un programma all’insegna della scoperta della fotografia e dei fotografi di alcuni Paesi del mondo presi ben poco in considerazione.
Grazie al meraviglioso lavoro di Filippo Maggia, che ha curato sia la mostra dei fotografi africani sia questa sugli indiani e alla bellissima personale di Monika Bulaj, il Magazzino delle Idee ha inaugurato una stagione interessante e originale che permette – finalmente – di comprendere come nel mondo della fotografia, sia storica sia contemporanea, ci sia molto altro al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti.
Paesi come l’Africa o l’India, inoltre, sono sempre mostrati attraverso lo sguardo occidentale. Molto più interessante invece vedere come gli artisti locali raccontino i popoli di cui essi stessi fanno parte.