Oggi che piangiamo per Istanbul, mi assale fortissima la nostalgia per la città che amo di più tra quelle che ho avuto la fortuna di visitare.
È il mese di maggio del 2013 e ho appena acquistato il volo per Istanbul per agosto quando comincia a infiammarsi la protesta di Gezi Park e di piazza Taksim. Sono anni che voglio visitare la Turchia, da Istanbul alla Cappadocia, fino al mare e finisco per pianificare il viaggio poco prima di una delle manifestazioni il cui eco oltrepassa i confini nazionali. Ovviamente partiamo ugualmente, a quel tempo l’idea che gli scontri potessero in qualche modo ripetersi ci sfiorava appena. Se ci ripenso oggi, il giorno dopo l’ennesimo tremendo attacco terroristico all’aeroporto di Ataturk, mi sembra sia trascorsa una vita e non soltanto tre anni.
Il primo ricordo del nostro arrivo a Istanbul è la difficoltà di capire come acquistare il biglietto della metro. Una cosa così semplice, un’azione fatta in non so quante città, è mai possibile? Avevamo letto di procurarci degli spiccioli, perché non c’erano macchinette per cambiare le banconote, ma non riuscivamo proprio a capire dove acquistare i tickets. E nessuno sembrava capire l’inglese.
Ad un certo punto si avvicina un ragazzo, ci fa cenno di seguirlo ad una macchinetta automatica: inserisce le sue monete ed estrae un paio di gettoni rossi. Solo a quel punto capiamo che il biglietto della metro in realtà è un gettone. Lo ringraziamo e ci accingiamo a restituirgli il denaro, che lui lo rifiuta ostinatamente, mentre ci allunga la mano e ci dice: “Benvenuti a Istanbul”. (Si accerterà poi anche che, scendendo a Zeytinburnu per andare a Sultanahmet, prendiamo il tram corretto in direzione Kabataş).
È agosto e della rivolta di Gezi park rimangono solo gli echi. Dalle immagini viste in tv e sul web non ero riuscita a farmi un’idea degli spazi. Piazza Taksim è una grande distesa di cemento, che d’estate sembra dover prendere fuoco da un momento all’altro, ed è forse uno dei luoghi esteticamente più brutti di Istanbul. Arrivando qui è ben chiaro come Gezi park rappresenti soprattutto un simbolo. Il parco è invaso dalle cartacce, in modo del tutto simile alle altre aree verdi della città, e non si contano le persone che dormono sull’erba o sulle panchine in pieno giorno, tuttavia nella parte più a nord le aiuole sono fiorite e gli alberi permettono un minimo di refrigerio. L’atmosfera sulla piazza è tranquilla e il presidio della polizia, riparato dal caldo sotto gli ombrelloni rossi scoloriti dal sole, sembra essere soltanto un deterrente.
Lungo Istiklal Kaddesi, che da piazza Taskim conduce alla Torre di Galata, e che rappresenta il viale pedonale più moderno e commerciale della capitale, abitanti e turisti si incrociano davanti alle vetrine e nei ristoranti. Lungo la strada, ci imbattiamo in una protesta silenziosa: alcune decine di persone sono sedute a terra, tengono in mano un garofano rosso e mostrano il ritratto di quello che probabilmente è un loro caro (morto o imprigionato, chissà). Un gruppo di persone, insieme agli operatori delle televisioni, osservano la protesta, mentre a distanza di sicurezza la polizia tiene sotto controllo la situazione. Non c’è alcun pericolo e tutto si svolge in modo pacifico, anche se la sensazione è che questo popolo sia attanagliato da numerose questioni irrisolte. Ma quale popolo non lo è?
Siamo nella cosiddetta parte europea di Istanbul, capitale più policentrica di altre. Questa immensa e popolata metropoli è composta da quartieri così diversi l’uno dall’altro.
I turisti mordi e fuggi si limitano a vedere Sultanahmet, che conserva patrimoni artistici e architettonici da vedere almeno una volta nella vita: la Moschea Blu, la basilica di Santa Sofia, il palazzo Topkapi, la Cisterna Basilica, spingendosi al massimo fino alla Torre di Galata e attraversando il famoso ponte da cui i pescatori gettano le loro lenze nel canale del Bosforo.
Ma Istanbul è anche e soprattutto molto altro. Il quartiere di Fatih (tra i più tradizionali della città), quello greco di Fener e quello ebraico di Balat, affacciati sul Corno d’Oro, con uno sguardo alle case di legno ottomane di Zeyrek , sono tra i più antichi e autentici della città: una passeggiata lungo i loro vicoli, dove i turisti non si spingono mai, è indimenticabile per provare ad avvicinarsi alla poliedrica anima della città e per vedere quella parte della capitale che non finisce sulle cartoline.
E poi c’è il Bosforo a dividere la zona asiatica da quella occidentale. Per gli abitanti prendere il traghetto è abituale come salire sul tram. Ma proprio il pezzo di città targato Occidente è in realtà quello più legato alla tradizione nei costumi e nel modo di vivere. Sul lato orientale del Bosforo, ad esempio, qualunque bar vende liberamente alcolici e in giro ci sono meno donne velate. A Kadikoy ci sono vie intere con pub frequentati da giovani e un allegro mercato che vende di tutto.
Istanbul è una di quelle città di cui si potrebbe parlare per ore. Ed è una di quelle città in cui i giorni programmati per la visita non bastano mai.
La speranza è che il suo patrimonio non soltanto artistico e architettonico ma anche e soprattutto umano possa essere ancora a disposizione di tutti quelli che hanno la voglia di conoscerla e comprenderla. E che l’orrore, dopo averci lasciato ammutoliti, non abbia il sopravvento su tutto.